Il concetto di responsabilità è generalmente offuscato da una connotazione grigia di pesantezza e costrizione. Di fatto, però, essere responsabili non significa altro che decidere in prima persona, cosa che tutti suppongono di fare, ma la questione è più complessa di quanto si creda.
Generalmente si è convinti di essere artefici delle proprie scelte, di vivere la propria vita, ma ci si illude. Molti non conoscono se stessi e si muovono nel mondo trasportati dagli eventi, credendo di parteciparvi attivamente. Vivono e muoiono senza aver neppure sospettato di essersi lasciati scippare la propria esistenza dalla propria pigrizia e arrendevolezza. Si cede agli eventi come giovani fanciulle inesperte che si ritrovano a rotolarsi tra le lenzuola, rapite dal proprio desiderio più che dalle capacità seduttive dell’uomo maturo che le possiede.
La mancata assunzione di responsabilità favorisce la manipolazione dall’esterno, ma non la giustifica. Senza tale assunzione si finisce per seguire una strada già tracciata solo perché è lì davanti, pronta e comoda.
Spesso chi si abbandona alla via già tracciata non si pone nemmeno il problema della responsabilità, ritenendola scontata o ininfluente nella propria esistenza. Chi si assume una responsabilità, prende in carico un impegno, cerca di prestare attenzione.
L’atteggiamento responsabile nei confronti della vita implica innanzitutto l’ascoltarsi, il conoscersi per comprendere i proprio bisogni e le proprie aspirazioni. Questa posizione di ascolto è la più naturale per produrre pensiero e consapevolezza e per porre lo sguardo verso i propri obiettivi. Di qui parte un percorso, che può essere stato già calpestato da altri o tutto da costruire.
Quando ci si immette in un cammino con queste premesse, si è pronti a reagire al cambiamento, ad affrontare gli eventi esterni e a modificare la propria mèta in corsa,con prontezza e senza paura. La presenza a se stessi è faticosa, ma è l’unica forma utile per vivere la propria vita da registi piuttosto che da attori.
Chi sceglie di affidare la regia ad altri si accontenta di un’esistenza parziale, facile e condivisa, incorrendo in una serie di inconvenienti spiacevoli come la noia, la rabbia, la paura di fare scelte sbagliate o di non essere accettati socialmente.
Chi tiene in mano la regia guarda il mondo dal suo interno. Chi la delega si sente perennemente osservato e cerca, perciò, di mettere una distanza infinita tra se stessi e il mondo per diventare sfumati. L’omologazione non è altro che un tentativo di sparire e di esistere allo stesso tempo. La propria esistenza emerge solo negli occhi degli altri e davanti ai propri occhi resta il vuoto incombente. Di qui la rabbia per l’incapacità di interessarsi e di appassionarsi così come di produrre interesse e passione. Lo sguardo degli altri diventa una droga, un bisogno letale da cui non ci si può affrancare e subentra la paura. Si teme di perdere il loro sguardo, ma anche di osservare se stessi in questa comoda prigione. Raramente si entra in contatto con se stessi, rimanendo come anestetizzati dal piacere generato dallo scorrere delle azioni.
Il sistema sociale favorisce questa posizione perché funzionale al buon andamento dell’economia e della sicurezza. La mancanza di controllo su se stessi consente di piegarsi agli spazi e ai ruoli voluti dalla società, come pasta frolla tagliata da uno stampino.
Anche chi è responsabile entra in questi limiti imposti, ma per fare dei tratti di strada più facilmente, tenendo sempre presente quali sono le proprie forme originarie e i propri obiettivi.
Il rapporto di chi è consapevole di se stesso con i ruoli della società è di tipo saprofita. Il virus entra nel sistema-corpo e lo modifica per la propria sopravvivenza. Il percorso ideale è assumere un ruolo, acquistare potere e consensi e modificare la struttura, il sistema. Non è facile, poiché molti, una volta entrati nel ruolo, vi si adagiano, privandosi della capacità di osservazione critica della realtà e di se stessi, in favore del piacere effimero prodotto dal consenso.
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